Qual è la differenza tra uragano e tifone? E quando si parla invece di “ciclone”? Ecco un piccolo manuale sugli uragani e sul loro grado di intensità
Gli uragani possono avere diversi nomi comuni, diversi nomi propri, e ovviamente diversa intensità.
Chi non ha sentito parlare almeno una volta di Katrina, l’uragano del 2005, o di Sandy nel 2012, fino ad Harvey nel 2017? Purtroppo, se ne sente sempre parlare in relazione ai danni e alle vittime che hanno provocato, nei luoghi degli Stati Uniti che hanno afflitto.
Per categorizzare la loro portata, infatti, esiste una scala che si chiama scala di Saffir-Simpson.
Non parliamo purtroppo solo di danni da milioni di dollari, quando si tratta di contare le conseguenze di uragani, tifoni e cicloni in America, si tratta anche di contare le vittime provocate dalla “catastrofe” atmosferica.
L’entità e la portata di essi – e quindi le loro lievi o forti conseguenze – viene misurata dagli esperti tramite la scala di Saffir-Simpson, la quale prevede una classificazione da 1 a 5, che descrive i diversi stadi di intensità di perturbazioni simili.
A studiarla e realizzarla sono stati l’ingegnere Herb Saffir e il metereologo Bob Simpson, nel 1969, e il sistema si basa sulla forza dei venti che sono presenti nell’evento meteorologico.
Dall’anno dello studio di Simpson e Saffir, la loro scala indica anche nella divulgazione internazionale la pericolosità degli uragani, dal livello più basso (1), fino a quello più alto (5), definito come “catastrofico”.
Esaminiamo ora le caratteristiche delle varie categorie, dalla più bassa alla più alta e preoccupante.
Già al livello 1 della scala Saffir-Simpson, si parla di “venti molto pericolosi” che possono produrre “qualche danno“. Come spiega il National hurricane center, persino le case costruite con buone strutture potrebbero avere danni ai tetti, tegole o grondaie. Gli alberi potrebbero rompersi e le linee elettriche potrebbero subire interruzioni per ore o giorni.
In questo caso i venti sono “estremamente pericolosi”. I danni alle costruzioni non riguarderanno solo i tetti, ma anche alcune pareti esterne, così come gli alberi potrebbero cadere e bloccare numerose strade. In questo caso, ci si può aspettare anche una perdita della corrente che duri per giorni o settimane.
È la circostanza per cui si prospetta e annuncia che “ci saranno danni devastanti”. Da questo livello in poi si parla di “grandi uragani”. Potrebbero essere sollevati tetti di case e potrebbero cadere molti alberi. Oltre alla mancanza di elettricità, in questi casi, si può verificare persino l’assenza della fornitura di acqua.
I danni, in questo caso, sono già “catastrofici”. La scala di Saffir-Simpson, come stiamo incominciando a capire, non prevede danni ingenti solo al livello 5. Le case, oltre al tetto, possono perdere anche muri esterni e alcune aree si ritrovano isolate e allagate. La maggior parte della zona colpita diventa inagibile, almeno per settimane, se non per mesi.
È lo scenario peggiore, quello in cui ci sono i danni maggiori alle abitazioni e i rischi più alti per la popolazione. Questo è stato il livello dell’uragano Katrina del 2005, per fare un esempio tristemente conosciuto, che ha colpito la città americana di New Orleans ed è stato uno dei peggiori disastri naturali degli Usa.
A prima impressione, sembrerebbe che questi nomi comuni differenti vadano a indicare fenomeni atmosferici differenti, invece questo è un inganno. Parliamo dello stesso, identico fenomeno – quello più comunemente chiamato “uragano” – ma con diversa provenienza della perturbazione in causa.
Un uragano viene definito come “un ciclone tropicale con venti a 119 chilometri orari o più alti”, come spiega il National hurricane center statunitense, quindi il termine si usa nella zona Atlantica e del Golfo del Messico. Nel Pacifico nordoccidentale, invece, si usa il termine “tifone”, mentre eventi simili nell’Oceano Indiano o nel sud del Pacifico vengono chiamati “cicloni” (o con il nome di “willy willy”, in Australia).
A ogni perturbazione viene poi assegnato un nome proprio, quello – per intenderci – di cui se ne parla sui giornali o dai vari media. In questo modo è più facile comunicare alla popolazione le informazioni sul fenomeno, e anche la classificazione della scala Saffir-Simpson risulta più semplice, se il livello di pericolosità di un evento è preceduto da un nome “di persona”.
È la World Meteorological Organization (WMO) che ogni anno, durante una riunione indetta, sancisce una lista di nomi propri da associare, qualora succedessero nei mesi a venire, agli eventi più estremi. Questa lista conta nomi propri “comuni”, in lingua non soltanto inglese – per esempio è previsto un Lorenzo, ma anche un Andrea nel 2025 – e alterna sempre un nome femminile ad uno maschile.
Anche le cosiddette “stagioni degli uragani”, ovviamente, variano a seconda della zona in cui si formano le perturbazioni. Nell’Atlantico e nel Pacifico orientale, per esempio, la fine del periodo attuale, un periodo mediamente attivo, è stata fissata dagli studiosi al 30 novembre 2023. L’inizio, invece, è da identificare secondo gli esperti in due fasi diverse: nell’Atlantico, è l’1 giugno, mentre nel Pacifico orientale, il 15 maggio.
Perché una intensa perturbazione del genere si formi occorrono precise caratteristiche meteorologiche: gli uragani nascono in zone di bassa pressione a causa del calore sprigionato dall’acqua calda degli oceani, che rende l’aria umida e la fa evaporare. A questo punto succede che le correnti d’aria circostanti cominciano a ruotare in senso antiorario (nel caso dell’emisfero Nord del mondo, e in quello orario nel caso dell’emisfero meridionale) per via della rotazione terrestre, trascinando con loro le nuvole della perturbazione, finché i venti non superano i 100 chilometri orari. A quota 119, come ormai sappiamo, si parla ufficialmente di “uragano”, “tifone” o “ciclone”.
Ogni uragano, infine, ha un punto – detto “occhio del ciclone”, protagonista anche di svariati modi di dire linguistici – che corrisponde a un’area centrale di bassa pressione (una sorta di cilindro interno, se si vuole visualizzare), dove i fenomeni sono nulli e la nuvolosità scarsa.
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