La multinazionale alimentare svizzera è accusata dall’agenzia anti-corruzione di Kiev di foraggiare la macchina militare di Mosca continuando a operare in Russia. Dall’inizio del conflitto, sono oltre 40 le aziende finite nel mirino della Nacp, incluse tre società italiane
Alla fine anche Nestlé è finita nella lista degli “sponsor internazionali della guerra” stilata dall’agenzia nazionale ucraina per la prevenzione della corruzione. Il colosso alimentare va a fare compagnia a oltre 40 multinazionali, da Unilver a PepsiCo, che dal 2021 sono state via via inserite nella black list perché, ha spiegato la stessa Nacp, “continua a supportare attivamente la Russia e, di conseguenza, a sostenere l’aggressione contro l’Ucraina”.
La decisione arriva dopo che nel marzo dello scorso anno, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva criticato la scelta di Nestlé – che include marchi come KitKat, Nescafe e Nestea – di non tagliare i ponti con Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina nel febbraio del 2021.
La difesa di Nestlé: “Solo prodotti essenziali”
“Abbiamo significativamente ridotto le nostre attività in Russia: abbiamo fermato tutto l’import e l’export dalla Russia, ad eccezione dei prodotti essenziali. Non facciamo più investimenti né pubblicizziamo i nostri prodotti. Non facciamo profitti dalle nostre restanti attività. Il fatto che, come altre società alimentari, riforniamo la popolazione con importanti alimenti non significa che continuiamo come prima“, era stata la replica della multinazionale in quell’occasione. Senza contare, aggiungeva il gruppo, l’impegno “in Ucraina e nei Paesi vicini per aiutare ad alleviare questa catastrofe umanitaria con donazioni di cibo. Siamo una della poche aziende alimentari attive in Ucraina”.
Secondo gli ultimi dati disponibili, il mercato russo rappresenta appena il 2% del suo fatturato globale del colosso svizzero. Secondo l’agenzia anti-corruzione, “all’inizio del 2022 la società svizzera gestiva sette stabilimenti” in Russia che impiegavano nel complesso 7mila dipendenti. “La società ha pagato oltre 25 milioni di dollari di imposte sugli utili nel 2021. L’analisi dei dati doganali russi rivela che nel 2022 Nestlé ha importato in Russia prodotti semilavorati e materie prime per un valore di 374 milioni di dollari, mentre nei primi nove mesi del 2023 questa cifra ammonta a 271 milioni di dollari”.
La lista degli “sponsor della guerra”
La lista dei marchi finiti nel mirino di Kiev include gruppi dell’industria alimentare del calibro di PepsiCo, Mars, Mondelez, Bonduelle, oltre a produttori globali di beni di largo consumo come Uniliver (da Mentadent a Dove) e Procter & Gamble (Gillette e Pampers, tra gli altri), brand della grande distribuzione come Auchan, compagnie petrolifere come le cinesi Sipopec e Cnpc, multinazionali del tabacco come Philip Morris, società tecnologiche come Alibaba e Xiaomi, marchi della cosmesi come la francese Yves Rocher.
La Cina guida la classifica con 12 società nella black list. Seguono gli Stati Uniti con sette, la Grecia con cinque, la Francia con quattro e la Germania con tre a pari merito con l’Italia. I gruppi nostrani finiti nella lista sono Buzzi (cemento), Danieli (impianti siderurgici) e Camozzi (componenti e sistemi per l’automazione industriale).
Non solo multinazionali ma anche “individui”: sono quasi 250 – tra imprenditori, amministratori delegati e presidenti – quelli finiti nel mirino di Kiev. Anche in questo caso, Pechino è in cima con 68, seguita da Usa (39) e Germania (22). L’Italia si ferma a 15.
Il boicottaggio e il danno d’immagine
Attraverso la lista della Napc, Kiev vuole incoraggiare il boicottaggio delle aziende che considera fiancheggiatrici dell’aggressione militare, perché con le loro attività o i loro affari in Russia foraggiano le casse del Cremlino e dunque alimentano indirettamente la macchina della guerra in Ucraina.
Chi viene considerato uno “sponsor della guerra” non è bersaglio di sanzioni, come il congelamento dei beni, le restrizioni ai viaggi e alle attività commerciali. La lista infatti non ha alcun valore in termini giuridici. Il prezzo da pagare è piuttosto di tipo reputazionale. Nelle intenzioni di Kiev, chi figura nella lista dovrebbe subire un danno d’immagine e dunque, indirettamente, di tipo economico.
I criteri di selezione arbitrari
Come ammette la stessa Napc sul proprio sito web, “non ci sono criteri di selezione formali”. Per finire nell’elenco, le società devono essere straniere (non russe), gestire affari su larga scala a livello internazionale, avere un marchio commerciale ben noto e “supportare la guerra in modo indiretto”, per esempio attraverso il pagamento delle tasse e l’esportazione di merci e materie prime.
Accanto ai numeri dei bilanci, ci sono dunque anche ragioni politiche che determinano l’inserimento o meno nella lista. Tanto è vero che, per oltre mille aziende che hanno deciso di togliere le tende, molte ancora continuano a operare in Russia ma non figurano tra gli “sponsor della guerra”. Secondo uno studio dell’Università di Yale, sono oltre duecento le società ancora attive nel Paese, tra cui noti marchi come la francese Lacoste, l’americana Johnson&Johnson e le tedesche Bayer e Boch e le italiane Benetton, Unicredit, Ariston, Diesel, De Cecco e Calzedonia.
Chi entra e chi esce: il caso della Otp
Emblematico in questo senso il caso della Otp, la più grande banca commerciale ungherese, inserita e poi rimossa dalla lista. La decisione è arrivata lo scorso 3 ottobre, dopo che l’istituto “ha assunto diversi impegni rispetto ai propri piani futuri nel mercato russo”, ha spiegato la stessa agenzia anti-corruzione.
L’inclusione nella black list aveva causato la reazione stizzita di Budapest, che aveva bollato la decisione di Kiev come “scandalosa” e “inaccettabile” per poi mettere il veto su una nuova tranche da 500 milioni di euro in assistenza militare dell’Ue destinata all’Ucraina, chiarendo che il blocco sarebbe rimasto fino alla rimozione della banca dalla lista. Alla fine dello scorso settembre era arrivata la “sospensione” della Otc nella “speranza” che la decisione spingesse l’Ungheria a “sbloccare” il pacchetto di aiuti miliari “vitali per gli ucraini”. Troppo poco per Budapest, che chiedeva la rimozione.
La campagna di comunicazione
A dare grande visibilità alla lista dell’agenzia anti-corruzione pensano gli attivisti di Ukraine Solidarity Project con compagne di comunicazione a effetto. È il caso di Dove, marchio di Uniliver, di cui hanno riprodotto in chiave satirica le pubblicità. I cartelloni, che mostrano soldati ucraini feriti, sono stati portati fino all’ingresso del quartier generale della società a Londra e hanno ottenuto grande eco mediatica oltre a diventare virali sui social network. “Il coraggio è bellissimo. Finazianre la guerra della Russia in Ucraina no”.